Astypàlea figlia di Agenore e di Telefassa, sorella di Europa e amante di Poseidone, volò leggera con le ali di farfalla sulle acque cristalline dell’Egeo e qui si posò.

È una bella leggenda e mi piace immaginarmelo così il mito anche per meglio descrivere la singolare morfologia di questa isola dalle coste frastagliatissime, così ricche di insenature, cale, calette, spiagge molte delle quali irraggiungibili se non per mare. È l’unione di due isole distinte, così appare, Exo Nisi e Mesa Nisi, tenute insieme da un breve e stretto istmo tra gli abitati di Pera Gialos e Maltesana. E le due isole o, meglio, i due gruppi montagnosi formano come due ali; ed ecco spiegata l’associazione di Astypalea con le farfalle.
È un’isola aspra, rude, per lo più arida dove i bassi cespugli di ginepro, appaiono l’unica vegetazione in grado di sopportare i venti dominanti del nord ovest che mitigano il calore del sole. Difficile vedere le nuvole nel cielo sempre terso dell’estate. E così la terra, a tratti rossa, grigia di pietre e rocce calcaree macchiate dal verde intenso e scuro dei ginepri e degli irsuti cespugli di timo in fiore, gli unici colori che ovunque vedo, è dura, arcaica, un richiamo alla mitologia greca. A ben vedere le capre sembrano gli unici animali ad animare le pietraie dei rilievi montuosi. Si dice che non vi siano serpenti, ma spesso capita di vedere i falchi volteggiare in perfetto equilibrio sulle termiche. Scarsi e sparuti i campi coltivati, confinati in ridotti appezzamenti, per lo più, nella fertile pianura di Livadia.
Una linea retta d’asfalto taglia l’isola all’altezza dell’itsmo; è la pista del piccolo aeroporto che collega Astypàlea ad Atene con aerei a turboelica. I voli non sono regolari, è il vento a fare gli orari. Chi arriva dal mare con il traghetto è, invece, subito affascinato dalla scenografia della fortezza Querini in alto sullo sperone roccioso a sovrastare un nugolo di candide casette che precipitano affastellandosi, le une sopra le altre, giù fino al porto di Pera Gialos. Sul crinale di questo anfiteatro una ghirlanda di candidi mulini a vento dai tetti rosso sgargiante, splendida corona regale dell’abitato che all’imbrunire è una magia di luci a indorare le casette e le tortuose stradine della Chora.

Dal porto scalinate infinite di gradini spesso alti e sempre irregolari sono la scorciatoia per salire alla Chora e alla fortezza. Fiato e gambe sono messi alla prova, ma guadagnare così la salita offre scorci suggestivi, angoli di verde inaspettati dove rigogliose buganvillea chiazzano di fucsia e rosso i muri bianchi.
Arrivati in cima al crinale è una sorpresa la piccola ma ricchissima biblioteca, uno scrigno che si apre in uno dei mulini, così zeppa di libri in tutte le lingue che la maestra di Astypàlea, Stella, impila e riordina con cura maniacale. Gentilissima me ne propone alcuni in italiano sulla storia dell’isola. Tra tutti mi colpisce “Stampalia, perla del Dodecanneso, avamposto dell’Europa” un compendio degli scritti autobiografici di Athinà Tarsouli del 1948, illustrati da alcuni disegni della stessa autrice. Sono disegni in bianco e nero, molto curati nei dettagli che descrivono alcuni angoli del villaggio e ritraggono i costumi tradizionali che le donne indossavano in occasione di particolari eventi. Lo prendo in prestito, così intrigato dal gioco di cercare la realtà di quegli scorci, una vera scommessa, perché qui su dai mulini a vento sfilano numerosi bar, taverne e localini dove i turisti e gente del posto amano passare la serata.
“Lontana come la principessa di una favola che vive sconsolata nel suo regno remoto e decaduto, così è Astypàlea”; è l’incipit del suo lungo reportage. La scrittrice greca riferisce che anticamente l’isola era anche nota come Pirra per il colore rosso fuoco della terra, ma anche Piléa per l’abbondanza di fiori profumati, materia prima per l’ottimo miele qui prodotto in migliaia di alveari colorati che disegnano il profilo di valli e colline.


In questo mese di giugno è rigogliosa la fioritura del timo che in voluminosi cuscinetti chiazza le pietraie di un viola delicato. Giganteschi oleandri sinuosamente segnano gli avvallamenti tra un rilievo e l’altro, lì dove ristagna un po’ d’acqua. Ma ovunque la macchia mediterranea tipica di mirto, cisto e lentisco copre i declivi fin dove le rocce s’ergono in bastioni che mi ricordano le nostre montagne. Paesaggio così aspramente arido, dunque, ma ingentilito da decine di chiesette rupestri che spuntano un po’ ovunque anche in luoghi così impervi che ti chiedi come poterle raggiungere. Sulla mappa ne ho contate ben 35, tutte rigorosamente di un candore abbagliante, con le piccole cupole turchese carico, punti focali di conforto e speranza. Difficile spiegarmene altrimenti il loro significato se non quello di disegnare una mappa di tanti genius loci, ognuno dedicato a un santo chiamato a tenere a bada il malvagio, l’ostilità della natura. Si somigliano un po’ tutte, sono povere, alcune poco più di una cappella, ma tenute con devozione e cura. La più importante è quella del monastero di M. Flevariotissa, un tempo meta di pellegrinaggio in mezzo alle montagne di Exo Nisi.


Nell’insieme la natura del paesaggio mi rimanda alla Sardegna, quest’asprezza arcaica dove solo le capre si sentono a casa. Ripenso ai miti dionisiaci, alla tragedia classica così legata al sacrificio del capro. Ed è un rito che si rinnova più prosaicamente nelle taverne dove la capra servita con le patate è il piatto forte per eccellenza.

Stamane mi alzo presto per salire alla Chora a fare alcuni disegni e fotografie. Il Kastro, termine greco che definisce la fortezza, domina l’abitato, segna l’orizzonte, indica la direzione ed è visibile praticamente da ogni angolo dell’isola, ne caratterizza l’identità. Colpisce il forte contrasto tra queste mura di un ocra scuro e il candore delle abitazioni che circondano il castello.

In una fotografia del 1912, scovata in un negozietto della Chora, la fortezza dominava solitaria il promontorio. All’epoca, infatti, la popolazione viveva dentro le sue mura in abitazioni fatiscenti ancora oggi visibili. Oggi sono finestre vuote, muri diroccati, soffitti sfondati, scale che saliscendono nel vuoto, eppure un tempo così animate. La fortezza veneziana dei nobili Querini fu per ben tre secoli l’unico rifugio contro le scorrerie dei pirati che infestavano queste acque e poi contro gli Ottomani che vi si insediarono e tennero l’isola fino all’occupazione italiana nel 1912, appunto la data della fotografia. Mi colpisce la rappresentazione di questo scarto temporale. Il profilo di dieci mulini a vento delineava il crinale come oggi, ma erano l’unico manufatto. Il porto era una banchina dove s’ergeva la cattedrale, nell’insieme il panorama di una desolazione che doveva affliggere i viaggiatori dell’epoca.


Mi piace perdermi nel labirinto dei vicoli che salgono al castello, alcuni molto angusti, disegnati dall’affaccio di balconcini in legno con le ringhiere a griglia, un ricamo delizioso impreziosito da finestre e portoncini azzurri. Il meltemi soffia furioso e mulina per i vicoli sfogandosi con forza rinnovata appena trova uno sbocco libero tra i muri. Mi inebria il vento, e questa atmosfera trascinandomi per vasti orizzonti che s’aprono in scorci improvvisi nell’ambivalente tensione tra il desiderio di protezione e l’anelito all’ignoto, quell’anelito che spinse molti marinai a solcare i mari.


Cerco nei disegni di Athinà gli scorci da lei ritratti in quel soggiorno sull’isola nel lontano 1948, segni del passato che fatico a ritrovare e sovrapporre alla realtà di oggi, in questo benessere che trasforma misere abitazioni in villini di villeggiatura, bar, taverne invitanti dove spizzicare qualche mezedes con retsina e ouzo oppure con l’ottima mastika prodotta dalla resina del lentisco.

Se la Chora è il centro pulsante dell’isola dove antico e moderno si combinano in una deliziosa armonia e le rovine malinconiche della fortezza ancora mi parlano di una miseria nemmeno troppo lontana, Maltesana è quel che più mi affascina. Il piccolo pontile con le barche dei pescatori ingombre di variopinte reti ammucchiate, pigramente cullate dalla placida brezza, dà la misura della baia delimitata dalle spiagge e dagli scogli bassi e dal filare delle tamerici ombrose. Appena sotto il pelo dell’acqua s’indovinano i muri perimetrali di una villa Romana. Nel grazioso museo a Pera Gialos una fotografia ne mostra i mosaici pavimentali ora rimossi e trasferiti a Kos.

Il candore delle poche case e taverne delimita lo spazio tra cielo, mare e costa in un contrasto di colori abbagliante. Qui il meltemi increspa appena l’acqua della laguna ed è l’unica voce. All’ombra intensa delle tamerici indovino le sagome ancora più scure di qualche avventore seduto a tavoli della taverna d’altri tempi. Gatti e capre si spartiscono l’ombra canicolare mentre i pescatori s’affaccendano attorno alle poche barche. Una pigrizia ferma vibra nell’aria e induce al sogno.
Poco più a monte, in una rovina di sassi e pietre sul lieve declivio della collina giace quel che resta delle Terme Romane. Un cancello chiuso ne impedisce l’accesso. Katerina, la cassiera del Pantapoleio, il minimarket del paese, dice che il sito è chiuso per mancanza di fondi. Gli archeologi hanno coperto i mosaici con teli di plastica per impedire che le acque piovane ne dilavino la superficie danneggiandoli. Tutto intorno ci sono scavi iniziati e mai conclusi, chiara evidenza che Maltesana offriva un ancoraggio sicuro. E, magari, era anche luogo di buon ritiro di qualche facoltoso antico romano, vai a sapere.
Il tempo si dilata a Maltesana e mi rammarica di non averne a sufficienza per fermarmi qui ed immergermi completamente in questa atmosfera. Il tempo necessario per assaporare quest’aria, questa luce, questa brezza.

Mi è d’aiuto l’incontro inatteso e insospettabile con un italiano che qui ci vive almeno otto mesi all’anno. Tito Barbini ha scelto questo luogo, lui sì, come buen retiro per chi è già in là con gli anni. A settembre ne compirà ottanta e lo dice con un certo orgoglio. Capelli fluenti, candidi, mossi dal vento, sguardo penetrante, gli occhi inquieti a sondare sempre oltre l’orizzonte del tempo e dello spazio. Un passato da politico di sinistra e ora scrittore con alle spalle notevoli esperienze di viaggio in giro per il mondo. E il viaggiare tra Patagonia, Alaska, il Mekong e una certa irriducibile inquietudine l’hanno portato qui come un capodoglio spiaggiato nell’ultima casetta bianca che chiude la baia in faccia al tramonto. La voce inconfondibile di Guccini che intona La Locomotiva è come un lamento sussurrato che si trascina nell’ondeggiare instancabile di una pittoresca barchetta ormeggiata lì davanti. Guccini è stato il nostro tempo, il nostro mantra, la voce paciosa di amori frettolosi e deliri rivoluzionari nelle cantine ammuffite di notti ubriache. Riascoltarlo qui, in questo spazio luminoso e che si apre all’infinito del mare mi fa un certo effetto. Commuove.
Ci si porta sempre dietro qualcosa di sé, dovunque si vada, il cuore e il ventre della nostra identità. Anche se c’è stato un momento nel quale avrei voluto immedesimarmi in un luogo, con la sua natura e la sua gente fino ad esserne non più forestiero, ma parte integrante e fino a rinnegare la mia origine. Poi ho pensato che è un esercizio inutile ed è invece più importante rimanere se stessi, ritrovarsi nella molteplicità delle esperienze. Chissà perché mi scivolano questi pensieri mentre ascolto Tito riassumere brevemente la sua vita e parlare di ciò che gli sta più a cuore, l’amore, soprattutto. Ma le parole si perdono nella suggestione del sole che cala lentamente, senza fretta.

Penso al tempo matto del mio fuggire ascoltandolo, a quel comune lasciarsi alle spalle le certezze e al coraggio che io non ebbi fino in fondo. Chissà, forse mi ritroverei anch’io in un posto simile a questo dove finalmente approdare e tirare i remi in barca a far la conta del pescato. E quando il peso dei ricordi è troppo, allora Tito mi offre un bicchierino di ottima Mastika, mentre la Locomotiva di Guccini pulsa ancora come cosa viva.
Astypàlea, in fondo, è anche tutto questo.
Fantastico grazie Luciano