Requena è la meta finale del nostro viaggio. Requena, la capitale del distretto omonimo nella regione di Loreto, una cittadina di nemmeno trentamila anime sul Rio Ucayali.
Ci separano una cinquantina di chilometri di dura marcia nella foresta più fitta. Un vero supplizio di calore umido, tantissimo fango, saliscendi continui tra quebradas celate dalla vegetazione, innumerevoli guadi di torrenti, fiumi, rigagnoli d’acqua, acquitrini. Più o meno tre giorni di cammino. I Matsés sono capaci di percorrerli anche in un giorno solo. Così mi dicono. Camminano scalzi; tutt’al più calzano infradito. Io marcio con pedule leggere, la suola in Vibram. Capirò ben presto che è una calzatura inadatta, troppo rigida, senza presa alcuna sui grossi trochi sospesi tra una sponda e l’altra dei guadi, sopra i quali occorre avanzare in equilibrio precario, come funamboli, a volte anche a una certa altezza, viscidi e scivolosi per il muschio e i funghi che ci crescono sopra. Inoltre, il fango impregna la tomaia di tessuto a strati in Goretex, cosicché il piede si macera in un putridume di sudore e melma.
Camminare a lungo in questa foresta è un’esperienza esasperante. È un ambiente ossessivo, chiuso, claustrofobico dove ti sembra manchi l’aria, dove ti trovi sempre inzuppato di sudore e di fango che ti avvinghia le gambe e di pioggia che scroscia a intermittenza e dove continuamente devi fare attenzione a dove mettere i piedi.
Formiche carnivore e urticanti ti aggrediscono mentre cerchi di attraversare acquitrini e rigagnoli d’acqua, infilandosi nelle pieghe della camicia o dei pantaloni, o mordendoti con dolore pungente sul collo nudo non appena sfiori inavvertitamente il fogliame o qualche ramoscello.
Se andare via fiume ti consente di respirare la brezza leggera del procedere con la canoa a motore e puoi vedere porzioni di cielo nella foresta, qui, invece, patisci questa umida penombra dove la visibilità e ridotta a pochi metri in tutte le direzioni, anche verso l’alto.
Sono cieco nella penombra di chiaroscuri che continuamente si alternano nelle infinite varianti del verde. Non mi accorgo di piccole ranocchie non più grandi di un pollice che Armando mi fa notare, arrestandomi in tempo prima di calpestarle. Non avverto l’odore pungente e aspro di urina col quale il giaguaro ha appena marchiato il territorio, pisciando su di un insignificante arbusto; non odo i richiami delle scimmie che si danno l’allarme da qualche parte, sopra le nostre teste, mentre tre microscopiche protoscimmie ci osservano curiose da una cavità di un troco di lupuna. Non mi accorgo dello jergòn, un serpente velenoso che, ad un passo dai miei piedi, striscia tra il tappeto di fogliame e se ne va per la sua strada.
Procedere così è ancora più frustrante davanti all’ineguagliabile leggerezza e agilità dei nativi che ti superano velocemente, senza esitazione alcuna sui tronchi viscidi come sapone, a piedi nudi e nonostante siano carichi del bagaglio ingombrante della nostra spedizione. Come un allocco, rimango incantato a vedere queste giovani indie che mi sorridono per celia, mentre mi attardo ad aspettare che Armando e Denis mi preparino il terreno, approntando corrimani di fortuna con qualche ramoscello tagliato a colpi di machete e conficcato nel fango.
Sono trascorsi oltre trent’anni dalla mia ultima volta in Amazzonia e scopro nuovamente tutta la mia inadeguatezza. Allora ero più giovane e con una sensibilità più raffinata. Oggi mi trovo del tutto fuori luogo impacciato, insofferente, un pachiderma che dove passa trascina la sua distruzione.
Nella mia dabbenaggine non mi rendo nemmeno conto di calpestare il variegato e complessissimo microcosmo che sottende il pianeta Amazzonia. Per contro, l’esperienza ha acuito la mia sensibilità a scorgere ovunque i segni dell’imminente devastazione: un tappo di plastica scalzato da chissà quale bottiglietta, un frammento di sandalo perduto chissà quando e da chissà chi; un sacchetto traforato volato via, impigliatosi tra le fronde; una piccola pozza d’acqua chiazzata di olio motore; brandelli di maglietta in poliestere strappati dagli aculei di un pijiguao… Potrei andare avanti all’infinito, perché sempre di più si moltiplicano i segni della degenerazione.
Il porto di Requena è un declivio di arena rossa che appare e scompare con le piene, dove passerelle di legno a pelo d’acqua collegano le varie imbarcazioni ormeggiate. Iquitos dista una quindicina di ore di navigazione con le numerose soste ai vari piccoli ancoraggi che s’affacciano lungo il Rio Ucayali. Anche qui, come Iquitos, la cittadina vive dei prodotti che l’Amazzonia produce e offre sui banchi di un mercato animatissimo.
Il pesce esposto è ancora vivo. Esemplari bizzarri agonizzano in recipienti di plastica e alcuni, dalle fattezze mostruose, aliene, mi richiamano alla mente le numerose leggende popolari che raccontano di rapimenti di fanciulle ad opera di misteriose creature dei fiumi. Sotto alcuni banchi, intravvedo grovigli di tartarughe rovesciate sui carapaci che disperatamente muovono le zampe all’aria tra le maglie delle reti in cerca di fuga. Nonostante sia un animale protetto, le tartarughe puoi trovarle sventrate sui banchi del mercato assieme a teste di caimano con le fauci spalancate, pronte per essere arrostite all’istante.
Praticamente tutto ciò che si muove viene venduto e trasformato in cibo. Come quei grassi bacarozzi di chissà quale farfalla o insetto che vedo sussultare nel fondo di un catino prima di finire infilzati in succulenti spiedini.
Ovunque assisti all’assalto dei venditori ambulanti che ne approfittano per smerciarti le loro povere mercanzie. Ovunque i rifiuti spazzati dalle piene s’aggrovigliano in ammassi di putridume multicolore e maleodorante decomponendosi al sole. Le acque trascinano lentamente verso l’Atlantico, lontano ancora 4000 km, tronchi, fogliame, frammenti di foresta come emblemi di un pianeta sconosciuto assieme alle carcasse del nostro vivere civilizzato.
Ottimo articolo, ben scritto, avvincente e suggestivo!